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TRE COLORI - FILM ROSSO
(TROIS COULEURS: ROUGE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 maggio 1994
 
di Krzysztof Kielowski, con Irène Jacob, Jean-Louis Trintignant, Frédérique Feder, Jean-Pierre Lorit, Samuel Lebihan (Francia - Polonia, 1994)
 
Con TRE COLORI - FILM ROSSO, Krzysztof Kieslowski conclude la sua ormai celebre trilogia. E se dobbiamo credere alle sue affermazioni di volersi ritirare in Polonia, questo potrebbe essere l'ultimo capitolo, 20 anni dopo il primo lungometraggio, PERSONEL, di una delle filmografie più affascinanti del cinema contemporaneo.

Girato a Ginevra, co-prodotto con mezzi anche nazionali, TRE COLORI - FILM ROSSO rappresenta un ritorno al passato. Quasi che il regista - proprio come un compositore musicale - abbia desiderato riprendere i motivi conduttori della propria opera: per riassumerli in un movimento conclusivo, un'ultima volta prima del finale. Se TRE COLORI - FILM BLU (la "liberté") era segnato da una certa qual enfasi melodrammatica e da una ridondante sottolineatura espressiva, se BIANCO (l'"égalité") era stato costruito di contrasto con una semplicità quasi divertita ed un salutare ritorno al reale, questo ROSSO (la "fraternité") ritrova un suo giusto equilibrio. Quello di una realtà ricreata con un senso vivissimo della materia (degli oggetti come dei suoni, della luce oltre che, naturalmente dei colori). E che serve al regista per fuggire questa realtà: verso l'astrazione, il mistero, la metafisica ed i suoi affascinanti quanto incerti territori.

ROSSO segna pure, infatti, il ritorno al tema che ha contraddistinto tutta l'opera del regista de IL DECALOGO: la dialettica fra il Caso (o, a seconda dei gusti, il Destino) e la nostra volontà. Quella che ci serve per ribellarci alla predestinazione, per intervenire, per esporci (moralmente, psicologicamente, politicamente, a seconda dei casi e dei film), senza eccessivi calcoli, siano essi morali o materiali.

Kieslowski aveva già dipinto - in AMA IL TUO PROSSIMO (1988, la versione lunga del sesto Decalogo) - un personaggio che, come quello interpretato qui da Trintignant, ne osservava un altro, non visto. Ma, proprio perché il cinema del regista polacco è scandito dal Caso (e, di conseguenza, dagli sforzi che debbono compiere gli individui per sfuggire a questo condizionamento), lo sguardo del giovane protagonista che osservava la bella pittrice dirimpettaia, non nasceva semplicemente in funzione voyeuristica del mitico oggetto di desiderio. Piuttosto, del desiderio di essere padrone - grazie a quello sguardo - del proprio accadimento; e, di conseguenza, pure del destino dell'essere amato. In Kieslowski, cioè, osservatore ed osservato non rappresentano l'aguzzino e la vittima, l'aggressore o il masochista: perché nell'obbiettivo del cineasta non c'è l'oggetto, ma il soggetto. E la presunta vittima finisce per desiderare di essere osservata: soltanto grazie a questo intervento di un estraneo essa può incominciare ad uscire dalla propria solitudine.

In ROSSO, Kieslowski non racconta più di qualcuno che osserva: ma - per delle ragioni non molto dissimili - che ascolta.

Jean-Louis Trintignant (in quella che è certamente una delle sue migliori interpretazioni) è infatti una specie di giudice, misantropo e scorbutico, in pensione. E la giovane protagonista (Irène Jacob, che una volta ancora Kieslowski sa rendere d'incantevole luminosità e trasparenza) lo incontra - come dubitarne? - per caso: riportandogli il cane, che era sfuggito al giudice, e che la macchina della giovane modella aveva investito.

Il giudice non è soltanto un po' strano, e sulle prime pure aggressivo. Ma ha ciò che viene normalmente considerato un difetto, se non addirittura un vizio: passa le giornate ad ascoltare, a registrare le conversazioni telefoniche dei suoi simili. Il telefono, le relazioni che questo fa nascere, i fili che si legano grazie ad esso (in una brillante introduzione al film, la cinepresa segue vorticosamente i cavi che dalle abitazioni si moltiplicano fino alle centrali, poi partono in mille direzioni, s'inabissano fra le onde, nelle viscere marine per riaffiorare sui lidi opposti) diventano allora ben presto altri fili, tipicamente kieslowskiani, questi. Sono i fili del burattinaio, del demiurgo che ci governa (e che, forse, è governato a sua volta da quel suo proprio "destino"). A partire da quel momento ogni personaggio, ogni situazione del film appare come predestinata, si organizza davanti ai nostri occhi di spettatori secondo una logica che ci riconduce a quel principio. Ed alla solita interrogazione proposta dal cineasta polacco: possiamo (cogliendo l'"attimo fuggente", l'istante generoso come quello della giovane modella che - istintivamente? - sente di potersi avvicinare al vecchio giudice, per ridargli quel senso della comunicazione, dell'amore ormai perso) intervenire nei confronti del Burattinaio?

In un finale curioso (e che alcuni hanno trovato anche discutibile) si direbbe che Kieslowski risponda affermativamente: se è vero che fa scampare ad un naufragio sulla Manica soltanto sette passeggeri su mille duecento e passa. E - guarda caso, vien proprio da dire - sei di loro li conosciamo assai bene: sono i due protagonisti di BLU (Juliette Binoche e Benoit Régent), di BLANC (Julie Delpy e Zbigniew Zamachowski) e di questo ROUGE, Irène Jacob ed Jean-Pierre Lorit. Come dire: tutti coloro, fra i protagonisti della trilogia, che hanno avuto il coraggio (o la fede, la generosità, l'umiltà, o qualcosa che ognuno può inserire a proprio piacimento) di prendere coscienza - senza per questo adattarvisi - di quella ragnatela di fili che ci governa.

Condotto con la mano imperiosa dell'artista che sa esattamente quale tinta imprimere alla sua tela, TRE COLORI - FILM ROSSO si esalta in questo suo magistero: le qualità espressive, la nobiltà delle preoccupazioni morali che stanno dietro a questo disegno sono tali che negarle - come si ostina a fare qualcuno - mi sembra essere di semplice malafede. È invece vero che - nella sua perfezione - il film soffre anche di queste sue qualità: che il simbolismo (il rosso dappertutto, fino ai semafori, alle poltrone del teatro, alla carta da pacco) più che divertito può apparire sistematico. Che la struttura del film (quello scheletro portante della storia, che è in definitiva il vero soggetto, la vera ragione d'essere del film) finisce per affiorare con eccessiva invadenza. Che in passato (a cominciare da quel film che si chiamava proprio IL CASO) il regista aveva forse svolto il suo tema con minore enfasi, forse con meno evidente maestria, ma con maggior naturalezza.

Sono disquisizione comunque sottili, che andranno eventualmente fatte a bocce ferme: quando questo grande regista avrà veramente appeso la cinepresa al chiodo dei nostri ricordi.


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